Salerno Classica: a Museo Diocesano enfant prodige Leone Pini – Dentro  Salerno

Il quindicenne violinista si cimenterà nel concerto op 35 di Pëtr Il’ič Čajkovskij, con l’Orchestra da Camera Fiorentina, diretta da Giuseppe Lanzetta, venerdì 29 agosto nell’Atrio del Museo Diocesano, alle ore 20,30

Serata nell’estasi del virtuosismo romantico e del classicismo beethoveniano che guarda già oltre, quella che chiuderà l’estate di Salerno Classica, organizzata dall’Associazione Gestione Musica del Presidente Francesco D’Arcangelo e del Direttore artistico Costantino Catena, venerdì 29 agosto, con l’evento straordinario che saluterà, nella cornice dell’atrio del Museo diocesano di Salerno, alle ore 20,30, l’Orchestra da Camera Fiorentina, diretta da Giuseppe Lanzetta, che avrà quale ospite il giovanissimo violinista Leone Pini, quindicenne, il quale si cimenterà con il Concerto in re maggiore per violino e orchestra, op.35 Pëtr Il’ič Čajkovskij, musica pura, un gioco di suoni senza alcun rimando al mondo fuori di essa, un racconto di emozioni. Čaikovskij lo scrisse nel marzo del 1878 a Clarens, in Svizzera, dove era riparato dopo il disastroso fallimento del matrimonio con Antonina Milukova con il quale il compositore aveva cercato se non di risolvere, almeno di mimetizzare la sua omosessualità. L’affrettato matrimonio aveva minato il suo fragile equilibrio psichico come egli stesso ebbe modo di precisare in una lettera all’amica Nadežda von Meck: “Ho passato due settimane a Mosca con mia moglie. Sono state due settimane di insopportabili e continue torture morali. Ero disperato. Ho cercato di morire perché mi sembrava l’unica via di scampo. Ho attraversato momenti di follia durante i quali la mia mente era piena di un tale odio verso la mia sfortunata moglie che ho desiderato di strangolarla. Ero incapace persino di fare il mio lavoro al conservatorio. Non sapevo più cosa fare”. Una sera, quando la sua sofferenza ulteriormente acutizzatasi divenne insopportabile, egli si gettò nelle acque gelide della Moscova nella speranza di contrarre una malattia che lo conducesse a morte certa non volendo recare un disonore al nome della famiglia con un suicidio. I suoi propositi suicidi, per fortuna, fallirono e il bagno estemporaneo nella Moscova non procurò danni alla sua salute. Decise, allora, di abbandonare la moglie e di recarsi a Pietroburgo presso il fratello Anatolij che, vedendolo in quelle condizioni pietose, pensò bene di allontanarlo dalla Russia con la motivazione che Čajkovskij era stato scelto come rappresentante della Russia all’Esposizione Universale di Parigi. In realtà la meta del loro viaggio fu il paesino sul lago di Ginevra scelto per il clima particolarmente salubre idoneo a facilitare la cura anche delle malattie nervose e, grazie ad una vita tranquilla e regolare, lentamente il compositore recuperò una certa stabilità tanto da sentire il bisogno di riprendere a comporre. Nacque così l’idea del Concerto per violino e orchestra ispirato dal violinista Kotek che lo aveva raggiunto nella sua dimora svizzera e dei cui suggerimenti tecnici egli si avvalse per la parte solistica, anche se, nonostante la preziosa collaborazione del violinista, decise, poi, di dedicare il Concerto a Leopold Auer, caposcuola di un gruppo di violinisti per la maggior parte ebrei provenienti da Odessa, motivando tale scelta, come scrisse al suo editore Jurgenson, con il desiderio di non suscitare nuovi pettegolezzi. Auer, tuttavia, pur dichiarandosi lusingato e onorato per la dedica, si rifiutò di eseguire il Concerto che poté avere la sua prima esecuzione europea a Vienna il 4 luglio 1881 grazie al giovane violinista Adolf Brodski, al quale il compositore alla fine dedicò la partitura. La composizione è in parte ispirata al primo grande Concerto romantico, quello op. 64 di Mendelssohn. Il primo movimento, “Allegro moderato”, si avvale di una calibrata dialettica fra solista e compagine orchestrale, che sfrutta una invenzione melodica lirica e pregnante; la cadenza, come in Mendelssohn, è prima della ripresa e non al termine. La centrale “Canzonetta (Andante)” è un Lied di impronta popolare, basato sulla tenera cantabilità del solista. Il Finale (“Allegro vivacissimo”) è una pagina di trascinante vitalità, dove l’elemento zigano si converte in strepitoso virtuosismo; ma non mancano, nei vari episodi, pause liriche di raffinato lirismo, prima che la partitura venga suggellata da una brillante coda ad effetto. La seconda parte della serata sarà interamente dedicata all’esecuzione della VII sinfonia di Ludwig Van Beethoven. La grandiosa visione di Wagner della “Settima” come “apoteosi della danza” serve a introdurre il discorso in un contesto piú specificamente musicale: la “Settima” costituisce un punto di arrivo e di passaggio nello stesso tempo, che dal punto di vista formale e stilistico corona in modo del tutto particolare la conquista beethoveniana del dominio sinfonico. La continua espansione della ricerca sulle possibilità della sinfonia, quale si era concretata nella seconda maniera, approda infatti nella “Settima” a una riduzione dell’ambito formale che in sintesi significa un passaggio di livello nel modo di considerare i rapporti e le funzioni all’interno dell’itinerario formale della grande forma sinfonica. Questo processo risulta evidente sia sul piano del carattere e del divenire dei temi, sia su quello delle loro funzioni nei rapporti di contrasto e di opposizione nello svolgimento dei quattro tempi, sia nella tecnica degli sviluppi e delle elaborazioni, sia, infine, nella ricerca sulle proprietà strutturali dei fondamenti del linguaggio; e questi non sono che alcuni, anche se i principali. Su un piano piú generale tale riduzione, che si arricchisce già dei connotati precipui che porteranno agli esiti massimi delle opere dell’ultimo periodo, condiziona anche l’ulteriore grado di appropriazione del modello della forma-sonata, che qui dà vita ad una concezione formale unica ed assoluta proprio in quanto è il risultato di un processo che, disimpegnatosi via via dalle strette dell’individualismo eroico in lotta, è giunto ad analizzare e ad oggettivare i termini stessi del proprio sviluppo. Nella Settima, dunque, Beethoven realizza un decisivo passo verso un modo nuovo di concepire la musica e, in particolare, la costruzione sinfonica, fondandosi unicamente sul contrasto nel fluire del tempo degli elementi puramente musicali organizzati al loro stadio primario: essenzialmente, come successione e opposizione di ritmi. Il ritmo è il fondamento strutturale che sta alla base della Sinfonia e che, materializzandosi, ne riempie di contenuto formale lo schema astratto che Beethoven derivava dalla tradizione (forma-sonata per i due tempi estremi, rondò e scherzo, rispettivamente, per quegli intermedi); il rilievo assoluto che il ritmo vi assume spiega fra l’altro l’origine della interpretazione di Wagner, la sua immagine poetica e figurativa: che cosa è infatti la danza se non sublimazione del ritmo musicale? Ma piú importante è forse ribadire come in questa Sinfonia sia superato ogni concetto di contrasto tematico (perché non esistono temi come individualità distinte e autosufficienti in lotta fra loro), e perfino sia abbandonata la traccia convenzionale dell’itinerario tonale, anch’essa come travolta nell’incessante divenire ritmico: lo sfruttamento delle possibilità connesse alla articolazione ritmica secondo un principio che si potrebbe definire di “variazione integrale”, da una parte, la loro organizzazione in funzioni e relazioni che esse stesse concorrono a creare, dall’altra, questi sono i concetti fondamentali che in-formano la struttura di questa splendida pagina.