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di MONICA DE SANTIS

 

“Di tutte le arti profane, la fotografia è, razie al suo rapporto con la luce e la trasfigurazione, quella il cui immaginario è più vicino all'arte sacra”. (Tisseron 1996). Al tema “Fotografia e devozione” sarà dedicato il finissage della mostra “Il panno ritrovato” di Armando Cerzosimo, fruibile fino a mercoledì 23 settembre presso la Galleria Camera Chiara di Armando Cerzosimo, in via Giovanni da Procida, 9.

Il finissage si svolgerà appunto mercoledì 23 settembre alle ore 21, ed è stato affidato all’antropologo Paolo Apolito, unitamente al giornalista Gabriele Bojano, che introdurrà la serata. La mostra “Il panno ritrovato”, è nata dall’affidamento, da parte del parroco della cattedra di Matteo, Don Michele Pecoraro del compito di fotografare il panno restaurato di San Matteo, ovvero la realizzazione di un file che permetterà di riprodurre la bellezza e la forza espressiva del “Panno ritrovato”, ogni volta che sarà necessario. All’interno dell’ intervento fotografico di Armando Cerzosimo, altri due valenti fotografi salernitani Corradino Pellecchia, unitamente ad Edoardo Colace, hanno realizzato, le immagini del backstage, di qui l’idea di una mostra e di una riflessione sulla fotografia quale formidabile strumento di documentazione della realtà e di indagine interiore, senza tuttavia perdere mai di vista il piacere puro di fotografare, nonché l’impegno civico, un legame profondo e disinteressato con la città e le sue realtà più vive. Se nel vernissage sono entrati in gioco da parte del critico e docente di fotografia Cristina Tafuri termini quali “strategia dello sguardo” o “connessione sentimentale” da parte dello stesso Armando Cerzosimo, conclusione che ha la sua parte di verità, secondo Gramsci, nell’applicazione pratica della trasmutazione dell’energia in forza e, in fine, in sostanza. l’evento finale saluterà l’antropologo Paolo Apolito, relatore in una serata, che verrà introdotta dal giornalista Gabriele Bojano, dal tema non semplice, dedicata alla fotografia e alla devozione. Se la fotografia ha da sempre lanciato molteplici sfide alla pittura, la sfida più avvincente è quella che pone in gioco la possibilità e la capacità della fotografia di rendere visibile l’invisibile, cioè costruire una forma di presenza nel sensibile a ciò che costitutivamente lo trascende. La fotografia ha potuto recuperare la connessione col trascendente attraverso la mediazione della tradizione pittorica. La ri-produzione fotografica sembrerebbe ontologicamente destinata a desacralizzare la configurazione pittorica a tema religioso a causa dell’inferiore “grado di purezza” del medium fotografico rispetto a quello pittorico. Tutto questo ci porterà inevitabilmente a chiederci come il livello produttivo delle immagini possa essere decisivo rispetto agli effetti di senso delle immagini fotografiche e alle loro possibilità di rappresentare l’invisibile. Per quel che concerne le ragioni della scelta della fotografia per presentare il sacro esse sono sostanzialmente tre, ovvero: la sua capacità di divenire un “ponte” con quanto è passato, dissolto; essere manifestazione dell’attimo; rendere manifesti interstizi del visibile altrimenti intangibili. Il mezzo fotografico, dunque, come linguaggio privilegiato per svelare questi concetti e indagarne le diverse declinazioni e interpretazioni possibili.

 
 

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