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"Carabiniere intascò 171 mila euro con falsi certificati di viaggio ...

Scrive Luca Spagnolo – (Rappresentante legale del MOSAC – Movimento Sindacale Autonomo Carabinieri): Ah, la militarità! Che bel concetto, così limpido, così pulito. Evoca ordine, disciplina, senso del dovere. Roba da farci un bel poster e appenderlo in ufficio, magari in quello di qualche ministro. Peccato che, come spesso accade in questo nostro disgraziato Paese, la linea di demarcazione tra una cosa e il suo opposto una “sottile linea rossa”. Sottile, sì, ma non per la difficoltà di vederla, quanto piuttosto per l’imbarazzo di ammettere che quella linea, spesso, è già stata allegramente scavalcata, calpestata e magari usata come zerbino. E così, dalla nobile militarità si scivola, con una facilità imbarazzante, nel più becero e stantio militarismo.

Il militarismo, per chi non ha avuto l’onore di conoscerlo, è quel simpatico meccanismo per cui la divisa non è più simbolo di un servizio reso alla comunità, ma diventa una sorta di camicia di forza mentale. Una roba che comprime tutto ciò che non rientra nel quadro: la libertà di pensiero, la possibilità di esprimere un dissenso (anche minimo), il sacrosanto diritto di non lavorare in condizioni da Terzo Mondo e, naturalmente, quello di non essere trattati come automi senza cervello né diritti. È quando il “si è sempre fatto così” diventa la risposta a qualsiasi domanda, l’unica verità possibile. È un’alzata di spalle, un “lei che ne sa?”, un tentativo di liquidare ogni istanza di civiltà, di dignità, di sicurezza sul lavoro.

E così, in questo bel quadretto, il militare, l’uomo in divisa, smette di essere un cittadino e diventa un suddito. Un bravo soldatino che non deve lamentarsi, non deve fiatare, deve solo obbedire. La libertà di parola? Quella è solo per chi dice “signorsì”. La tutela sul lavoro? Roba da sindacalisti rompiscatole, roba che potrebbe creare “precedenti” scomodi. La dignità? Quella è un lusso, un optional, come il navigatore satellitare su un’utilitaria.

Poi, in questo idillio militarista, arrivano i sindacati militari. Quelli veri, s’intende. Non i sindacaticchi di regime, quelli che chiamiamo con un certo eufemismo “gialli”. Quelli che hanno l’ufficio nel Palazzo e si preoccupano più di non “disturbare il conducente” che di tutelare realmente i lavoratori. No, parlo dei sindacati autonomi e indipendenti, quelli che rappresentano una vera spina nel fianco per il Potere. Quelli che osano chiedere: “Ma i militari non sono anche cittadini italiani? La Costituzione vale anche per loro o c’è una legge speciale per chi indossa la divisa?”.

Questi signori sindacalisti, con la loro fastidiosa indipendenza, non hanno mai messo in discussione il valore della militarità autentica. Quella fatta di onestà, di competenza, di dedizione. La militarità che, per intenderci, salva vite e non quella che copre gli abusi. Loro intervengono quando la militarità si trasforma in militarismo, quando si usa la “specificità” per negare un luogo di lavoro decente, una condizione igienica accettabile, un minimo diritto di replica. Sono la voce di chi crede che si possa essere servitori dello Stato anche senza rinunciare a un briciolo di dignità.

Le recenti “polemiche” sul pacchetto sicurezza e le piccate osservazioni della Corte di Cassazione non sono un fastidio, un rumore di fondo da ignorare. Sono l’avvertimento che la democrazia, nonostante tutto, cerca di farsi strada anche nelle caserme. E che il sindacato militare, per quanto possa sembrare un paradosso, è l’unica garanzia che la militarità rimanga un pregio e non si trasformi, per l’ennesima volta, nel pretesto per trasformare i nostri militari in onorifici ma silenti sudditi.

 

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