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Alla vigilia del nuovo anno, lo scrittore Raffaele Lauro (www.raffaelelauro.it) ha rilasciato una lunga e articolata intervista, sulle novità narrative 2020 che lo riguardano.

Scrittore inesausto e prolifico, intellettuale senza frontiere nel campo letterario, filosofico, dell’arte pittorica e della musica, ha pubblicato, con successo, diciotto romanzi, autobiografici, biografici e storici, con lo sguardo, innamorato e memore, specie nella quadrilogia sorrentina, Sorrento The Romance (Lo scontro, nel secolo XVI, tra Cristianesimo e Islam), Caruso The Song (Lucio Dalla e Sorrento), Dance The Love (L’epopea della danzatrice Violetta Elvin Prokhorova) e Don Alfonso 1890 (Sant’Agata sui Due Golfi e Salvatore Di Giacomo), nei confronti della sua amata terra natale, la penisola sorrentina, e dei valori della “sorrentinità”, in termini di civiltà dell’accoglienza e di cultura dell’ospitalità. Un autentico maestro di vita, insomma! Un uomo delle istituzioni, non barricato nel cosiddetto palazzo e ostile ai privilegi di casta; un uomo della società civile, legato alle tematiche sociali, da ex studente-lavoratore; un uomo della contemporaneità, immerso consapevolmente nei drammatici problemi del nostro difficile tempo e, non da ultimo, un uomo del futuro, con una visione, realistica ma sempre positiva, rivolta all’avvenire e alle nuove generazioni, dalle quali, lui auspica, possa venire la difesa delle libertà e il rinnovamento politico. 

D.: Da dove partiamo, plurilaureato, professore, saggista, prefetto, senatore o scrittore? Che bilancio può fare, in via preliminare, del suo percorso di vita, compirà 76 anni nel prossimo febbraio, e che giudizio si sente di assegnare a se stesso?

R.: Scusi, questa è un’intervista sulla narrativa o il mio testamento pre mortem? Comunque, le rispondo. Innanzitutto, mettiamo da parte i titoli, non sono mai stato sensibile ai titoli, accademici o meno, alle onorificenze o ai riconoscimenti. Porto il nome del mio nonno materno, Raffaele Aiello, che non ho conosciuto, un contadino intellettuale, socialista, antifascista, melomane, pucciniano, dal quale ho ereditato il colore degli occhi e l’amore per la lirica. Quindi, mi chiamo Raffaele. E tanto basti. L’unico appellativo che mi fa sorridere è “prof”, come mi chiamano quasi tutti a Sorrento, in particolare i miei ex alunni del Liceo Salvemini, dove, per un decennio, ho insegnato Storia e Filosofia, prima di trasferirmi a Roma. Per il resto, tutto il mio percorso di vita è stato segnato dalla mia inesauribile curiosità intellettuale, dal mio desiderio di conoscenza e dal mio sentimento d’amore verso l’universo mondo, la natura, gli esseri viventi, le persone. Un approccio alla realtà, ereditato da mia madre Angela, che mi fornisce le fonti d’ispirazione e il materiale grezzo per la scrittura. Non so dare un giudizio su me stesso, questo spetta agli altri. Posso solo confermare che, nonostante gli studi filosofici, non mi sono lasciato fuorviare da ideologie, materialistiche, esistenzialistiche o laicistiche, e resto fermamente ancorato alla mia fede cristiana, alla Divina Provvidenza e, da peccatore, alla Misericordia di Dio.

D.: Questa presentazione, comunque, rischia di farla apparire come una persona scevra da difetti, da errori e da contraddizioni.

R.: Nessuno è privo di difetti e di limiti, connessi alla stessa natura umana. Né io faccio eccezione. Assolutamente. Il mio principale difetto, tuttavia, è rappresentato dall’impazienza, mossa da un bisogno ancestrale di concludere, quanto prima, ciò che ho intrapreso negli studi, nel lavoro e nei rapporti umani, familiari e sociali. Non amo lasciare niente a metà, se dipende esclusivamente da me. Mia madre mi chiamava “ieri”, perché ero capace di non andare a dormire pur di concludere quanto programmato. La mia rapidità di sintesi spesso cozza con i tempi degli altri e rischia di apparire insofferenza o, senza volerlo, mancanza di riguardo. Mons. Antonio Zama, il mio arcivescovo, l’arcivescovo di Sorrento, mi fece, a proposito di questa mia manchevolezza, un solenne fervorino, che non ho più dimenticato e il cui ricordo mi aiuta, ancora oggi, a temperare questo mio punto debole: aspettare, mi disse, chi resta dietro, rappresenta, fisicamente e mentalmente, un atto di carità cristiana. Lo sanno bene quanti mi hanno, pazientemente, collaborato in quasi cinquant’anni, a Sorrento e a Roma. Per gli errori, non commetterne risulta impossibile, l’importante è riuscire a recuperarli in positivo nella propria esperienza di vita. Infine, noi viviamo di contraddizioni, piccole e grandi, che possono anche diventare stimolanti, purché non vissute in danno altrui.

D: Dopo questo esordio introspettivo, capisco quanto le prema parlare di scrittura. Cosa ci prepara la cucina narrativa di Raffaele Lauro? Abbiamo letto, finora, delle anticipazioni, ma sarebbe interessante, per i nostri lettori, poterle approfondire con lei.

R: Nella tarda primavera 2020 sarà pubblicato il saggio critico sulla mia intera opera narrativa, in via di completamento da parte di una raffinata scrittrice messinese, docente e giornalista, collaboratrice delle pagine culturali di un quotidiano siciliano, la professoressa Patrizia Danzè, grande organizzatrice di eventi culturali e sofisticata interprete del complesso mondo letterario di Andrea Camilleri, il padre del commissario Montalbano, di recente scomparso. Il saggio è intitolato “L’Universo Amore” e si presenta strutturato in due parti: la prima comprende il saggio critico vero e proprio; la seconda, a somiglianza di quanto impostato per l’opera di Camilleri, raccoglie, nell’ordine cronologico di pubblicazione, una scheda editoriale con la cover, la trama del romanzo con i personaggi principali e un’intervista all’autore, sui retroscena inediti di ciascuna opera: l’ispirazione, le ricerche bibliografiche e documentali, il non detto, le recensioni, i rimandi autobiografici, le presentazioni pubbliche più significative, le rassegne stampa. Un lavoro serio, importante e approfondito, che fornisce al lettore gli elementi necessari per condividere, o meno, i giudizi critici dell’autrice. Devo confessare che la Danzè mi ha impegnato per tutta l’estate a rispondere adeguatamente alle sue domande puntuali, dirette e motivate, che hanno scardinato tutte le mie difese, anche quelle più intime, specie sull’eros e la morte. Ha sviscerato anche i significati più coperti, reconditi e nascosti, padroneggiando e riconducendo a unità interpretativa tutto il mio mondo creativo, all’apparenza così frastagliato e complesso.

D: Ha già letto il saggio in anteprima? Ne è rimasto soddisfatto, magari compiaciuto? Come ha conosciuto la Danzè? Come è nata questa collaborazione?

R: Il saggio è in via di rifinitura e lo leggerò solo sulle bozze di stampa, già corrette. Non chiederò di modificare neppure una virgola per rispetto all’autorevolezza dell’autrice e alla sua maniacale precisione. Sono ben consapevole dell’onore che mi ha concesso, nonché del sacrificio affrontato, nel mettere ordine nella mia diversificata produzione narrativa. L’ho conosciuta nel 2002 quando venne a presentare a Roma, con Gianluigi Rondi, il primo volume di “Quel film mai girato”, dedicato alla vicenda umana di mia madre, scomparsa l’anno precedente. Mi colpì la delicatezza delle sue riflessioni sul rapporto madre-figlio e un giudizio rimase scolpito nella mia mente: “In quest’opera la vita si fa romanzo e il romanzo si fa vita”. Ci siamo rincontrati, dopo tanti anni, e, quasi spontaneamente, è nata questa collaborazione, per me preziosa, gratificante e di forte motivazione.

D: Passando al suo nuovo romanzo, dedicato a Greta Garbo, in uscita la prossima estate, con lo svelamento della bellissima cover creata su una rara fotografia della Diva, scattata a Roma negli anni Sessanta, molti anni dopo il suo ritiro dai set cinematografici di Hollywood, può chiarire l’origine di questa scelta, molto coraggiosa, di affrontare un mostro sacro della storia del cinema mondiale?

R: Il seme di questa nuova sfida, peraltro molto sofferta, ancorché consapevole delle difficoltà, origina dagli anni in cui mi sono laureato in regia cinematografica, presso la NUCT (Nuova Università del Cinema e della Televisione), sotto la guida di tre grandi maestri del neorealismo italiano, Giuseppe De Santis, Carlo Lizzani e Florestano Vancini. Nel corso di un dibattito sul rivoluzionario passaggio, negli anni Quaranta, dal cinema muto a quello sonoro, venne fuori il cosiddetto “Mistero Garbo”: le ragioni per le quali la diva più ammirata al mondo, la Divina per antonomasia, un mito vivente, avesse abbandonato, al culmine del successo, della fama e della bellezza, la carriera cinematografica, senza dare spiegazioni e senza avere mai ripensamenti, nonostante le molte sollecitazioni, ritirandosi in una splendida solitudine, lontana dalla ribalta, fino alla morte. Senza concedere mai un’intervista. In quell’occasione, di motivazioni ne vennero date parecchie: la delusione per l’insuccesso del suo ultimo film; il gossip sulla sua vita sessuale e sui matrimoni mancati; il terrore di doversi, con il sonoro, cimentare in ruoli leggeri, a lei poco congeniali; le manipolazioni della sua immagine classica imposte dalla casa produttrice. Concluse il dibattito, tra allievi e docenti, tra i quali lo sceneggiatore Ugo Pirro, il maestro De Santis, il quale sentenziò che il “Mistero Garbo”, alla base del suo intramontabile mito, non sarebbe stato mai risolto, perché le ragioni vere di quella “fuga” appartenevano all’infanzia di Greta, al suo inconscio e alla sua volontà di riappropriarsi della libertà, conculcata, negli anni del successo, dalle apparenze e dalle finzioni del cinema americano degli anni Trenta, tanto lontano dalla realtà. Ne rimasi colpito.

D: Perché ha atteso tanti anni, prima di tirar fuori questo progetto di una biografia interiore della Garbo?

R: In verità non ci avevo mai pensato, ritenendo il compito troppo arduo, quasi inaccessibile alle mie possibilità. D’altro canto, sulla Garbo diva, fino a ieri, sono state scritte decine di biografie, non autorizzate, alcune addirittura falsificatrici della sua personalità e persino volgari. Inoltre, migliaia di saggi, recensioni e articoli commemorativi, a ogni anniversario della scomparsa, a ogni mostra dei suoi abiti di scena o dei suoi gioielli, a ogni vendita di un immobile da lei abitato, o a ogni asta per le sue lettere autografe, mai firmate e scritte a matita, indirizzate alle sue amiche del cuore, segnate tutte da un sentimento unico, la solitudine, una solitudine voluta, non subìta. Casualmente, parlando, l’anno scorso, della Garbo, con un mio fraterno amico, il giovane e brillante regista Giuseppe Alessio Nuzzo, appassionato lettore e presentatore dei miei romanzi, direttore del Social World Film Festival di Vico Equense, e del suo progetto di organizzare una retrospettiva sulla diva, gli confidai il giudizio di De Santis sul “Mistero Garbo”, sull’altra Greta, la donna, non la diva, sull’elogio della solitudine. Ne sono seguìti altri confronti, sullo stesso tema, è così da un ricordo di De Santis è maturata in me, incitato da Nuzzo, un’idea-progetto, di scrivere una biografia psicologica sulla vera Greta e sul suo desiderio di libertà, pur confinato in una solitudine prescelta. La fuga da Hollywood è stata una fuga verso la libertà!

D: Ora si spiega il titolo, “Il Mistero Garbo. L’altra Greta. L’elogio della solitudine. (1942 - 1990). Ma come è articolata questa nuova opera, così affascinante?

R: Il romanzo copre un arco di circa un cinquantennio, dal 1942 al 1990. Infatti, nel 1942, a soli trentasei anni, nel fulgore della sua bellezza fisica, della maturità artistica e del successo mondiale dei film, da lei interpretati, anche dopo l’avvento del sonoro, la Divina per eccellenza, Greta Garbo, si ritira improvvisamente e definitivamente dai set cinematografici di Hollywood. Non tradirà mai, fino alla morte (1990), a ottantacinque anni, l’opzione per la riservatezza, rifiutando nuove proposte anche da parte di grandi registi e rifuggendo per sempre i riflettori. Nessun biografo, dei tanti, tuttavia, è riuscito a espugnare le ragioni profonde, psicologiche, caratteriali, morali e ambientali, di una scelta, così radicale e senza rimpianti. Il Mistero Garbo. Ci provo io, indagando sul vissuto quotidiano della ex-diva, nell’appartamento di New York, tra le tele di Renoir, o nella dimora svedese, immersa nella natura; sulle amicizie intime, maschili e particolarmente femminili, foriere anche di scandali; sulle pratiche filosofiche orientali e, infine, sulle frequenti presenze, come ospite, in residenze nobiliari, su panfili miliardari o in dimore amene, come a Taormina, quasi sempre marine, vissute, queste ultime, in totale anonimato. Il lettore scopre, pian piano, l’altra Greta, la vera Greta, che ritorna alle origini, all’infanzia, alle pulsioni represse, alle malinconiche depressioni e all’amore per la solitudine, un amore mai tradito o svenduto in cambio di ipocrite operazioni coniugali di facciata. Una scelta di libertà, alla quale la Garbo non rinunzierà mai, pena dover rinunziare a se stessa. Spero di riuscire a tessere, tramite la vicenda interiore di Greta, un elogio della solitudine, come dimensione universale dell’uomo, come suprema consapevolezza del proprio limite, di fronte all’Assoluto.

D.: Dove presenterà, in anteprima, questa nuova opera, così stimolante? E come pensa sarà accolta? Tra l’altro non ha come scenario la nostra terra sorrentina.

R.: Sorrento, no. Finora non ho rintracciato documentalmente, o meglio fotograficamente, presenze della Garbo in terra sorrentina, ma ci saranno dei flashback di Greta a Capri e, in particolare, sulla costiera amalfitana, a Ravello, a Villa Cimbrone. Sono convinto che questo libro possa interessare e coinvolgere, anche se tratta indirettamente di storia del cinema americano, non solo i cinefili, ma, per il suo carattere universale, quanti sono affascinati dalle vite dei personaggi di successo, quando si avviano sul “viale del tramonto”. Anche se il destino di Greta fu ben diverso, in quanto rinunziare alla ribalta fu per lei una libera scelta, non una condanna. Non è un caso che il mio romanzo incipit proprio con il fermo rifiuto opposto, nel 1950, dalla Garbo a Billy Wilder, alla proposta di interpretare la decadenza di Norma Desmond, una cinquantenne ex-diva del cinema muto, in Sunset Boulevard, insieme con William Holden ed Erich von Stroheim. Ruolo, poi, affidato a Gloria Swanson. Uno dei capolavori del cinema americano o come lo definì il Time “...il lato peggiore di Hollywood raccontato nel modo migliore”. Per le presentazioni spero di poter seguire la scia di qualche festival del cinema: Cannes, Vico Equense, Locarno, Venezia, Roma e, naturalmente, Sorrento.

D.: Un programma ambizioso per il 2020, l’anno che verrà, per dirla con il “suo” Dalla!

R.: La ringrazio di aver citato una canzone profetica di Lucio, a me tanto cara, perché il testo nacque dalla lettura di un racconto breve dello scrittore svizzero-tedesco Robert Walser: La Passeggiata. Nonostante “le cose non vadano”, e lo sappiamo bene, nei tempi difficili che viviamo, così come Dalla non sposò il pessimismo walseriano, anche noi non dobbiamo mai abbandonare la speranza. Anche se non ci saranno miracoli nel 2020! Questo è il mio augurio per i vostri lettori e per coloro che vorranno decifrare questa mia intervista di fine d’anno. Nonostante i problemi, non arrendiamoci a essi e cerchiamo di non “vedere sempre il nero, il terribile”, come auspicava Lucio. Piuttosto guardiamo quel filo di luce in fondo al tunnel, come fece lui in tutta sua vita di uomo e di artista. Auguri