enzo buonaNAPOLI - JUVENTUS TRA RIVALITA' SPORTIVA, LOTTA DI CLASSE E STORIA DELL'ITALIA DI DENTRO

Napoli-Juve o Juve-Napoli non è una semplice partita di calcio per i napoletani; anche se cambiassimo l’ordine degli addendi, il risultato non cambierebbe.

 

Due tifoserie, una rivalità oltre il calcio, che è sociale e politica, una sfida territoriale Nord-Sud con una data simbolo: il 13 febbraio 1861, giorno in cui cadde la fortezza di Gaeta e il nord si impadronì del sud, mettendo a ferro e fuoco il meridione con ruberie, imposizioni, massacri e fucilazioni, con la scusa dell’unità del paese a tutti i costi.

Addirittura a Napoli i subentrati reggenti sabaudi mutarono anche la toponomastica della città, sostituendo molti simboli borbonici, come ad esempio l’attuale Corso Vittorio Emanuele, un tempo Corso Maria Teresa.

Ma una rivalità generata in conflitto di classe, tra quella lavoratrice, proletaria, e quella imprenditoriale, capitalista. Migliaia di napoletani e di meridionali, lo hanno vissuto sulla loro pelle, trasferendosi per lavorare, proprio negli stabilimenti della FIAT. Ancora oggi per molti di questi lavoratori, per i loro coniugi e i loro figli, Napoli-Juventus riporta alla mente quegli anni di sacrifici e di rivendicazioni operaie. Rivendicazioni contro i padroni, a cui devono molto, ma a cui hanno dato tutto; che magari, ai quali, hanno sempre sperato di dare un dispiacere, quantunque effimero, come solo una partita di calcio sa essere.

Per capire ciò bisogna riandare all’inizio della storia del calcio italiano, ingabbiato a fine Ottocento in quel “triangolo industriale” Torino, Genova e Milano, sorto dopo l’Unità d’Italia per stimolare la crescita del Nord-ovest a detrimento del Sud. Ed il calcio fu il mezzo ideale della nuova borghesia industriale del nord per ostentare modernizzazione e benessere.

A Torino, nel 1898, nacque la FIGC, e quantunque in Italia si giocasse dappertutto, solo in Piemonte venivano organizzati cosiddetti campionati italiani, ma in realtà piccole competizioni interregionali di Piemonte, Liguria e Lombardia, perché al Nord nessuno voleva prendere un treno o una nave per andare a giocare al sud. Solo nel 1926, sotto il regime fascista, il Coni impose la nazionalizzazione del calcio con la “Carta di Viareggio”, consentendo alle squadre di Roma e Napoli di competere direttamente con le squadre di Torino e Milano, piegatesi malvolentieri.

Il nord intanto aveva accumulato vantaggio tecnico e impiantistico, e pure decine di scudetti. Il Genoa ne aveva già vinti 9, la Pro Vercelli 7, il Milan 3 e l’Inter 2, come la Juventus, che soli tre anni prima, nel 1923 era stata acquistata dalla famiglia Agnelli, cioè dalla Fiat, “La Fabbrica”, quella più importante d’Italia. Ciò fece della Juventus un elemento sportivo e simbolico in senso ampio, perchè la Juventus divenne subito vetrina dell’azienda Fiat, non una fabbrica qualsiasi ma la motrice dell’intero Paese che permise di realizzare allora la più grande migrazione di massa mai verificatasi nella Penisola. Pugliesi, siciliani, calabresi, campani, lucani e sardi fecero di Torino la città più meridionale d’Italia, ma nonostante contribuissero alla crescita economica del territorio mai furono ben accolti dalla gente del luogo.

Per evitare la perenne ghettizzazione, il calcio allora per gli emigrati, divenne un pretesto per farsi accettare. Molti sposarono i colori della Juventus, mentre il Torino restò la squadra dei torinesi. La famiglia Agnelli intercettò il sentimento e ricambiò con furbizia, offrendo ai lavoratori meridionali un’immagine familiare. In squadra vi era il catanese Anastasi, il sardo Cuccureddu, il siculo Furino, il salentino Causio ecc…, i cosiddetti “sudisti del Nord” a contribuire ai cinque scudetti juventini degli anni Settanta che accrebbero il seguito bianconero. La juventinità fu trasferita anche ai parenti degli emigranti rimasti al sud, sui quali faceva presa tutto ciò che comunicava ricchezza e successo settentrionale.

E mentre Torino era con Milano il motore d’Italia, Napoli faticava ad imporsi come moderna metropoli, accusata dal nord di scarsa passione per il lavoro, di tirar a campare, di vivere da terzo mondo. L’epidemia di colera del 1973 fu il pretesto per un feroce razzismo culturale. Da allora i sostenitori azzurri furono definiti “colerosi” e nella più cortese delle possibilità, quei cori auguravano al partenopeo un’eruzione del Vesuvio.

Fu da allora che lo stadio S.Paolo divenne l’unica tribuna politica seguita dai partenopei, che su quel campo cercavano vendetta domenica dopo domenica. L’arrivo di Diego Maradona nel 1984, fino al 1991, cambiò lo scenario tra vincenti e perdenti. Con Platini, era uno scontro fra fuoriclasse, ma anche lo specchio delle due città. Platini, aristocratico ed elegante; Maradona, latino estroso e passionale. L’argentino divenne l’angelo vendicatore e punitivo, dimostrò che anche Napoli poteva permettersi, con il lavoro e la programmazione, abbinate al talento, la vittoria e il capolavoro, ma non solo: che appartenza calcistica alla squadra e essere cittadino napoletano, combaciavano perfettamente, schiacciando le pur esistenti minoranze indigene, juventina compresa.

Napoli oggi è ancora tra le poche grandi città al mondo ad avere una sola squadra di calcio. Se a Torino vi è il torinista e lo juventino, a Milano il milanista e l’interista, a Roma il romanista e il laziale, a Napoli esiste solo il napoletano, non il “napolista”, idem sentire di un popolo, oltre che elemento di cittadinanza perché i napoletani del Napoli sono durissimi con i napoletani della Juventus, arrivando a mettere in dubbio la “veracità” della loro appartenenza alla città. Il napoletano, prova amore per Napoli. Lo juventino non ha alcuna necessità di amare Torino.

Napoli-Juventus, tra chi tifa per un club che appartiene ad una città intera e chi invece tifa per un club che è di tutti, cioè di nessuno.

Qualcuno si chiede: ma non è che si esagera con questo odio calcistica sfociato anche in odio di classe? Nel 1982, Umberto Eco scrisse, che “l’imponenza dello spettacolo calcistico e la sua abnorme risonanza nuocciono […] alla mente, perché spengono e rimpiazzano l’interesse per la polis”. Parole attuali, condivisibili. Non c'è dubbio, infatti, che in Napoli-Juventus, come in tante altre sfide, le persone proiettano conflitti, vi riversano bisogni identitari e sociali, operando una sorta di transfer dalla sfera politica alla sfera di cuoio, concetti acuitosi con “Moggiopoli”, dove i napoletani, mai come allora ebbero la netta sensazione che la Juve fosse il racconto di una gestione del potere a tutti i costi e con tutti i mezzi, fatto di corruzione, fidelizzazione di arbitri, e con una filosofia imprenditoriale della vita per cui tutto ha un prezzo, anche la felicità.

Forse si esagera, con la rivalità, eppure, dobbiamo confessare una cosa: quando il Napoli batte la Juventus, e nello specifico, analizzare ciò che è successo nel mondo al goal di Koulibaly lo scorso 22 aprile, è davvero vivere in un film di sociologia reale, sperando di non essere il solo a cui il calcio faccia questo effetto.

*docente di Marketing Turistico