enzo profiloO' CUOPPO, IL VERO RE DELLO STREET FOOD NAPOLETANO

Quelli della “Lira Generation” se lo ricordano. Quando i ragazzi non potevano permettersi una pizzeria, allora, pur di stare insieme, e mangiare su una panchina, con una mini colletta, ci si avvicinava alla friggitoria, spesso un piccolo Apecar e si comprevano “1000 lire di zeppole e panzerotti”. Le zeppole non erano altro che un impasto di acqua, farina, sale e lievito mentre i panzarotti impasto con patate lesse e schiacciate, sale, pepe, prezzemolo e parmigiano. E si era contenti, anche se non si parlava ancora di street food.

Solo da pochi anni lo Street Food è divenuto un concept mondiale: mangiare in risposta a uno stimolo; mangiare ovunque e quando si ha fame. Cibo venduto in chioschi, camion/furgoni o segway. Un successo al punto che riviste famose quali il Gambero Rosso in Italia  e Time Out in Gran Bretagna dedicano sempre più spazio.

La storia dello street food napoletano, possiamo datarla a partire dai XVIII e XIX secoli, quando la Napoli dei Borbone gareggiava con Londra, Parigi, Vienna, anche nel cibo e quando i cuochi di corte (solitamente francesi) rielaborarono ricette come il babà (origine polacca), la cassata siciliana, il sartù di riso o il gattò di patate (gateau). Ma ciò che però differenziò Napoli, dalle altre grandi capitali europee, è che a latere di tale cucina di corte, si sviluppò un florido mercato di cibo di strada. Le ragioni possono essere varie: il clima caldo che consentiva di stare in strada molto di più rispetto a Londra o Vienna; l’influenza culinaria spagnola; l’arrivo da Palermo di cibi arabi, come crocchè, arancini e la cassata; infine l’esplosione demografica della città con la conseguente necessità di nutrire a basso costo migliaia di persone.

Divengono celebri gli ambulanti di strada, figure iconografiche quali il maccaronaro, il sorbettaro, il franfelliccaro (venditore di dolci), l’acquaiolo, il mellonaro, l’ostricaro, il tarallaro, caratterizzato dall’accoppiata nzogna (sugna) e pepe e dalla presenza delle mandorle.

Come pure diventano famosi i purpari, quelli che nei loro pentoloni fumanti vendevano il brodo di polpo (in dialetto ‘o bror ‘e purp), ben descritti nel “Il ventre di Napoli” di Matilde Serao: “con due soldi si compera un pezzo di polipo bollito nell’acqua di mare, condito con peperone fortissimo: questo commercio lo fanno le donne, nella strada, con un focolaretto e una piccola pignatta”.

Oggi a Napoli, malgrado la forte immigrazione asiatica ed africana che ha portato all’apertura di centinaia di friggitorie mediorientali, permangono elementi di tradizione indiscussa. Ai primi due posti dello street food napoletano non possiamo che trovare, come regina, la pizza a portafoglio, margherita o marinara, ripiegata più volte, appunto come un portafoglio, per poter essere tenuta in mano intera, senza sporcarsi, e come re indiscusso il cuoppo, dal tipico cartoccio di carta paglia, riempito di fritto al momento.

Ancora la Serao nel “Il Ventre di Napoli” così lo definiva: “…Dal friggitore si ha un cartoccetto di pesciolini che si chiamano “fragaglia” e che sono il fondo dei panieri dei pescivendoli.” E dallo stesso friggitore si possono avere “… per un soldo, quattro o cinque panzarotti, vale a dire delle frittelline in cui vi è un pezzetto di carciofo, o un torsolino di cavolo, o un frammentino di alici.”

Il cuoppo, rappresenta la Napoli ottocentesca, dove nei suoi bassi, i locatari, chiamati “zeppalaiuoli” predisponevano una piccola vetrina con i prodotti e portavano in strada il calderone, dove friggevano gli impasti, semplici, economici e conditi con poco. Oltre le pizze, scagliuozzoli, tittoli (piccoli scagliuozzoli), zigari (polenta tagliata a listarelle), vuzzarielli (internamente vuoti), vurracce (borraggine) in pastella, fino alle frittelle di baccalà. Proprio per questa incredibile arte di arrangiarsi napoletana nacque il fenomeno della pizza a credito, o pizza a otto, perché si mangiava oggi, ma si pagava dopo otto giorni, quando il bottegaio riapriva il suo basso ed era sicuro del ritorno dei clienti soddisfatti.

Oggi il cuoppo, si vende dovunque a Napoli. Da via Toledo ai Decumani, al Vomero, ecc.. sono nate tante piccole friggitorie, in slang, cuopperie, specializzate proprio nei fritti dove ogni cuoppo che mediamente costa dai 3 ai 5 euro, accoglie anche fritti più “complessi”, purché consumabili velocemente e in modo comodo. Tre sono le specialità di cuoppo più vendute.

C’è il cuoppo di mare dove, in base anche alla stagionalità, troviamo alici, triglie, baccalà fritto, gamberetti, zeppoline di mare con alghe o con anelli di calamari e moscardini, polpettine dipesce, chele di granchio, ranfetelle, fravagli, seppioline. Tutto condito con sale, pepe e limone.

Vi è poi il cuoppo di terra, un misto di crocchè di patate o panzerotti, arancini di riso ezeppoline di pasta cresciuta. C’è chi ci aggiunge anche verdure pastellate, come melanzane, zucchine, fiori di zucca ripieni di ricotta. Come pure mini frittatine di pasta e mozzarelline in carrozza fritte. Variante del cuoppo di terra è il cuoppo americano: patatine fritte e wurstel ed il cuoppo del bambino (ro criatur), ideato per i più piccoli con crocché di patate e zeppoline fritte.

Infine, il cuoppo dolce con graffette o zeppoline dolci, cosparse di zucchero o anche ricoperte di cioccolato; una sorta di ciambella fritta che la tradizione vuole chiusa a forma di nodo e spesso caratterizzata dalla presenza di patate nell’impasto.

Anche il cuoppo ovviamente ha i suoi segreti. Un buon cuoppo, è quello mai fritto nello stesso olio che deve essere di semi o di arachide o di girasole Anche se sembra scontato dirlo, il pesce non deve mai essere fritto insieme agli ingredienti di terra, altrimenti ne guasterebbe il sapore, né quelli dolci. Il cartoncino che contiene funge sia da facile asporto per poter mangiare per strada il cuppetiello, deve mantenere caldo il contenuto. Infine per capire se la frittura sia stata cotta al punto giusto, basta vedere se sulla carta del cuoppo ci sono larghe macchie di unto, segno che i fritti non sono stati asciugati bene.

Totò ha reso celebre il cuoppo con la frase "Miss mia cara Miss, nu’ cuoppo allesse io divento per te", nella canzone del film "Totò a Parigi" del 1958 volendo indicare che di fronte alla donna da lui amata diventava un cuoppo lesso, bollito, ossia un uomo ammaliato e remissivo. Come pure il poeta Salvatore di Giacomo, che parla proprio della friggitora del cuoppo napoletano nella poesia “Donn’Amalia e Speranzella”.